DEPRESSIONE

Si è appena laureato in Giurisprudenza. 110 e lode. Silenzio, seduto sul bordo del letto, nella sua camera (vive in famiglia, con i genitori), tapparelle semichiuse. Silenzio. E’ così da giorni. Luca T., 26 anni, è un “bamboccione” (a dirla alla Padoa Schioppa) senza prospettive. Depresso senza diagnosi, o sulla via per esserlo. Laureato brillantemente, ma fuso perché non vede il futuro. Il presente è un call center da 900 euro al mese. E due genitori che sono in ansia per lui. La madre lo guarda, lo coccola. Il padre, docente delle medie superiori, prossimo alla pensione, è un iper. Irrompe nella stanza di Luca, apre le finestre, lo sgrida e lo deprime ulteriormente con la classica frase: “Ma esci, sei giovane. Io alla tua età ero in giro con gli amici… Con le ragazze “. Tutte coltellate per la mente di Luca, ma forse non le ascolta più nemmeno. Eppure ci vorrà ancora del tempo prima che qualcuno pensi di farlo visitare da uno specialista. Lo psichiatra. Lo “strizzacervelli”. I luoghi comuni si sprecano: “Chi va dallo psichiatra è matto, ha qualche rotella fuori posto… Poi la gente che dice?”. Le sedute di psicanalisi? La psicoterapia? Uno stigma. “Poi se si viene a sapere… “. E poi, “troppo costose: una a settimana a 200 euro l’una… Non ce la facciamo”. Forse meglio le pillole, le passa il servizio sanitario…. E nessuno sa niente. In fin dei conti una pillola vale l’altra… Storia vera, in una città del Sud. Di quello che passa nella testa di Luca, se non per l’immagine del brillante laureato offuscata dalla paura dello stigma, pochi si interessano. E’ come il bicchiere riempito a metà: mezzo vuoto o mezzo pieno. E’ questo il momento per riempirlo del tutto, prima che invece si svuoti. Ma la diagnosi, come spesso accade e non solo in Italia, arriverà in ritardo. Anche un anno dopo. E così la cura.
Luca è depresso, forse peggio. Le sfumature sono molte: dall’uso generico della parola depressione per momentanei stati d’animo negativi alla malattia vera e propria. Psichica. Fisica. Psicofisica.

L’Italia s’è depressa. Povertà in aumento, giovani senza lavoro, sempre più vecchi pensionati e soli. Crisi demografica, la paura di truffe, rapine e scippi. Le varie caste contro cui sembra impossibile confrontarsi. La fotografia dell’Istat sembra influire anche sulla fotografia della salute psichica degli italiani. E così tra diagnosticati e non, tra chi è a rischio e chi non vuole accorgersene, sono ben 15 milioni i depressi d’Italia. Poco più di 10 milioni nel 2000. Più nelle donne che negli uomini: incidenza all’incirca doppia. Non tutti depressi gravi: si va dalla malinconia all’ansia, dai bipolari a chi esprime gli effetti collaterali dell’uso di droghe varie. Ma già il ricercare euforia quando si è giovani non è certo un buon segnale. Alla fine si può parlare di epidemia mondiale: prevalenza dall'8 al 10 per cento nella popolazione secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità che indica la depressione anche come prima causa di disabilità nel mondo di qui al 2020. Se invece si considera soltanto la popolazione tra 15 e 44 anni di entrambi i sessi questo posto gli spetta già. Gli specialisti sono costretti ad aggiornare la “bibbia” mondiale dei disturbi psichici, il Dsm. Alla quinta stesura partecipa anche l’italiano Maj.

Colpiti, con diagnosi, sei milioni di cittadini del nostro Paese. Ma altri nove milioni sono bicchieri mezzi pieni o mezzo vuoti, come Luca, soffrono in silenzio, non si curano e difficilmente accettano la malattia. E in un certo senso finiscono con l’avere una vita da disabili. Mario Maj, psichiatra napoletano, presidente della Società mondiale di Psichiatria, conferma: “La depressione è la malattia non fatale che comporta la maggiore disabilità”. Se non fonte di guai peggiori: Giovanni, 15 anni, suicida per una brutta pagella (nessuno immaginava!); Maria, 30 anni, che ha tentato di uccidere il figlio di pochi mesi (depressione post partum mai diagnosticata prima del dramma); Antonio, 45 anni, clochard dopo aver perso il lavoro e abbandonato moglie e figli… Storie. Tante storie mai scritte nemmeno nelle cartelle cliniche.
La depressione interessa oggi in tutto il 25 per cento della popolazione italiana (15 milioni di persone), le donne più colpite degli uomini. Le casalinghe in particolare. Ma è in aumento tra i giovani (mancanza di prospettive), nelle sempre più numerose famiglie a reddito insufficiente (debiti e sensazione di non arrivare alla fine del mese: a volte mancano pure i soldi per comprare i libri scolastici ai figli), negli anziani. Soprattutto se soli, con pensione bassa e senza mezzi per coltivare hobby o attività che tengano vitale la loro voglia del domani. E sì perché un depresso è senza un domani.

Alla fine, la somma porta a un italiano su quattro. Malato o a rischio. A volte, raramente, ne escono da soli o grazie a un evento che rappresenta uno choc tale da invertire il black-out. A volte famiglia o amici fanno da psicoterapeuti. Ma, troppo spesso, una diagnosi in ritardo comporta un intervento d’urto: farmaci e psicoterapia insieme. Spiega Maj: “Il punto essenziale è che la depressione (intesa nel senso clinico del termine) va distinta dalla demoralizzazione (o tristezza normale), che è quell’esperienza del tutto fisiologica a cui va incontro praticamente il 100% degli esseri umani, una o più volte nel corso della propria esistenza, a seguito di eventi di perdita, separazione o insuccesso. La distinzione della depressione dalla demoralizzazione si basa sul quadro clinico, sulle modalità della sua insorgenza, sulla sua intensità e durata, e sul grado di compromissione del funzionamento sociale e lavorativo. Questa distinzione richiede a volte tutta l’esperienza dello specialista, e può essere particolarmente difficile nel soggetto molto giovane, nell’anziano e nella persona con patologie fisiche concomitanti”. Dal diabete alla pressione alta, dall’obesità all’impotenza, dai disturbi nei rapporti con il cibo a deficit immunitari. Ai tumori.

Ecco il punto: diagnosi precoce, precisa e cure personalizzate. A volte si danno farmaci a chi non ne deve prendere, a volte non si danno quando si dovrebbe. Tra le cause anche la diffidenza degli italiani a rivolgersi ai servizi sanitari: i maschi anziani i più ostici. Tra le persone che hanno sofferto di qualunque forma di depressione nel corso dell’ultimo anno, soltanto il 20,7% si è rivolto al servizio sanitario (pubblico o privato, inclusi i liberi professionisti privati). Di questi, il 39,2% ha consultato soltanto il medico di medicina generale. E il 40,8% ha ricevuto soltanto la prescrizione di un trattamento farmacologico. Inoltre, la percentuale delle persone senza alcuna diagnosi di disturbo mentale nel corso dell’ultimo anno che ha utilizzato almeno uno psicofarmaco è stata del 12,9%, mentre la percentuale di tali persone che ha usato almeno un farmaco antidepressivo è stata del 2,1%. Quindi? Risponde Maj: “La grande maggioranza delle persone depresse nel nostro Paese non si rivolge ai servizi sanitari. Tra quelle che si rivolgono a tali servizi, una su sette non riceve alcun trattamento. Tra quelle che prendono farmaci, quasi un terzo assume soltanto farmaci ansiolitici (benzodiazepine o simili) che non hanno alcun effetto antidepressivo”.
Gli italiani si “fidano poco” degli specialisti perché aleggia un certo pessimismo sulle possibilità terapeutiche oggi disponibili. Poi, la vergogna e il timore di essere etichettati come “malati di mente”. Nel caso delle giovani madri depresse, infine, incide la paura di perdere la custodia dei propri figli.

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